Tutela GdP alla Corte UE

Giugno 8, 2020 uff Comments Off

Giudici di pace. Alla Corte di Giustizia Ue la tutela assistenziale e previdenziale dei giudici di pace e la proroga dell’incarico. Giudici di pace – Tutela assistenziale e previdenziale del lavoratore subordinato – Esclusione – Compatibilità con norme comunitarie. Incarico – Periodo di otto anni – Proroga – Compatibilità con norme comunitarie – Rimessione alla Corte di Giustizia Ue. Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia Ue la questione se gli artt. 20, 21, 31, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, le direttive n. 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato (clausole 2 e 4), n. 1997/81/CE sul lavoro a tempo parziale (clausola 4) n. 2003/88/CE sull’orario di lavoro (art. 7), n. 2000/78/CE (art. 1, 2 comma 2 lett. a) in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana di cui alla l. n. 374 del 1991 e s.m. e d.lgs. n. 92 del 2016 come costantemente interpretata dalla giurisprudenza, secondo cui i giudici di pace, quali giudici onorari, risultano oltre che non assimilati quanto a trattamento economico, assistenziale e previdenziale a quello dei giudici togati, completamente esclusi da ogni forma di tutela assistenziale e previdenziale garantita al lavoratore subordinato pubblico.       Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia Ue la questione se la clausola 5 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE, osti all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana, secondo cui l’incarico a tempo determinato dei giudici di pace quali giudici onorari, originariamente fissato in 8 anni (quattro più quattro) possa essere sistematicamente prorogato di ulteriori 4 anni senza la previsione, in alternativa alla trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, di alcuna sanzione effettiva e dissuasiva.
La controversia ha per oggetto la richiesta da parte di un giudice di pace che ha svolto l’incarico per lunghi anni e che ha goduto di varie conferme, di accertamento di un rapporto di lavoro pubblico a tempo pieno o part time con conseguente condanna del ministero al pagamento delle differenze retributive medio tempore maturate, oltre oneri previdenziali e assistenziali
La Sezione ha ricordato che secondo la normativa italiana come costantemente interpretata dalla giurisprudenza interna, il rapporto di servizio dei giudici di pace, qualificato dalla legge come onorario, non presenta gli elementi tipici del rapporto di lavoro subordinato e segnatamente del rapporto di pubblico impiego, essendo alle dipendenze del Ministero della Giustizia.
Ne consegue il mancato riconoscimento di ogni forma di tutela di tipo previdenziale ed assistenziale, anche in riferimento alla tutela della salute, della maternità e della famiglia oltre che del diritto irrinunciabile per qualsiasi lavoratore (art. 36 Cost.) alle ferie.
I giudici c.d. togati o di carriera sono invece titolari di un rapporto di lavoro in regime di diritto pubblico ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165.
La Sezione ritiene, tuttavia, dubbia la conformità al diritto dell’Unione di siffatta disciplina in base alla nozione di “lavoratore” di tipo senz’altro sostanziale invalsa nell’ambito del diritto dell’UE, svolgendo i giudici di pace funzioni giurisdizionali del tutto assimilabili a quelle dei giudici c.d. togati e/o comunque a quelle di un prestatore di lavoro alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione.
Ai fini del diritto comunitario i giudici possono essere considerati lavoratori ai sensi della clausola 2 punto 1 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, dal momento che la sola circostanza che i giudici siano qualificati come titolari di una carica giudiziaria non è sufficiente di per sé a sottrarre questi ultimi dal beneficio dei diritti previsti dall’accordo quadro (Corte di Giustizia U.E., 1.3.2012, O’Brien, C-393/10).
In base alla clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale e al principio di non discriminazione, il diverso trattamento di un lavoratore a tempo parziale rispetto ad un lavoratore a tempo pieno comparabile può giustificarsi solo con “ragioni oggettive”. Orbene, la nozione di “ragioni oggettive” ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale dev’essere intesa nel senso che essa non autorizza a giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo parziale e i lavoratori a tempo pieno per il fatto che tale differenza di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta. Tale nozione richiede, al contrario, che la disparità di trattamento in causa risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria (v., per analogia con la clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, sentenza 13.9.2007 Del Cerro Alonso C-307/05 punti 57 e 58).
Va ricordato che considerazioni di bilancio non possono giustificare una discriminazione (v., in tal senso, sentenze del 23 ottobre 2003, Schönheit e Becker, C-4/02 e C-5/02, 22 aprile 2010, Zentralbetriebsrat der Landeskrankenhäuser Tirols, C-486/08).
La mera qualificazione legislativa di un rapporto di pubblico servizio come rapporto onorario non appare da sola ad escludere né la sussistenza, di fatto e diritto, di un rapporto di lavoro subordinato, né ingiustificate discriminazioni a danno dei lavoratori pubblici a tempo parziale e/o determinato in assenza della determinazione di criteri oggettivi e trasparenti sottesi ad un’esigenza reale di discriminazione, stante l’assenza nella legge 374/1991 istitutiva del giudice di pace (e nella normativa secondaria attuativa) di elementi precisi e concreti che contraddistinguano il rapporto di impiego del giudice di pace, anche nel particolare contesto in cui s’inscrive, e la correlata assenza di idoneità e di necessità della normativa discriminatoria richiamata (vedasi in particolare punti 4-5-6-7) a conseguire un obiettivo che sia diverso da quello di sfruttare in modo intensivo, continuativo ed a tempo pieno una forza lavoro, a costi esigui, senza approntare alcuna garanzia o tutela a fini previdenziali ed assistenziali, nè garantire la continuità del servizio, ma sopperendo ad essa con indebite, ingiustificate reiterazioni di rapporti di lavoro a tempo determinato.
Né tali ragioni obiettive – ad avviso della Sezione – potrebbero rinvenirsi nella possibilità astratta del giudice di pace di esercitare l’attività di avvocato al di fuori del circondario in quanto, come affermato dalla Corte di Giustizia UE con riguardo ai magistrati onorari britannici, “non si può sostenere che i giudici a tempo pieno e i recorder non si trovino in una situazione comparabile a causa delle divergenze tra le loro carriere” rilevando invece se essi svolgano o meno la stessa attività (Corte di Giustizia U.E., 1.3.2012, O’Brien, C-393/10).
Del pari non potrebbero costituire “ragioni obiettive”, secondo il Collegio, le differenze pur esistenti in punto di modalità di selezione, apparendo ciò del tutto illogico oltre che sproporzionato, e non potendo ostare il mancato superamento del concorso pubblico (art. 97 Cost.) attesa la previsione di cui all’art.2126 c.c. in tema di rapporto di lavoro di fatto.
Parimenti irrilevante – ad opinione della Sezione – è la formale qualificazione del compenso corrisposto quale indennità, non potendosene invece del tutto escludere il carattere sinallagmatico, assolvendo esso la funzione di compensare i particolari oneri connessi al servizio istituzionale concretamente svolto, con un sistema parzialmente a cottimo ovvero in parte fisso ed in parte correlato alla quantità dei provvedimenti giurisdizionali emanati.
Nemmeno infine la durata a tempo determinato del rapporto può rilevare quale “ragione obiettiva”, sia perché il lavoratore a tempo determinato deve in linea di principio godere degli stessi diritti del lavoratore a tempo indeterminato, sia in quanto l’esaminato meccanismo di proroga sistematica degli incarichi per una durata di 15 anni – ovvero pari ad una significativa porzione della vita lavorativa della persona – e suscettibile di ulteriore proroga ha di fatto operato una sorta di “stabilizzazione” del rapporto “onorario. In questo modo è anche difficile negare (come pur autorevolmente opina la Corte di Cassazione) l’inserimento del giudice di pace nell’apparato organizzativo dell’Amministrazione della Giustizia.
D’altra parte, preme evidenziare se anche si volesse conferire a tali differenze ordinamentali la valenza di “ragioni obiettive” che giustifichino una discriminazione fra giudici di carriera e giudici di pace, tale differenziazione potrebbe solo consentire di escludere il diritto alla piena assimilazione e quindi l’applicabilità ai giudici di pace dello stesso trattamento economico e previdenziale dei giudici di carriera, ma non certo legittimare la negazione di qualsiasi diritto in presenza di un’acclarata attività continuativa ed a tempo pieno in regime di subordinazione, addirittura la negazione della stessa sussistenza di un rapporto di lavoro di fatto ai sensi e nei limiti di cui all’art. 2126 c.c. (nello specifico di pubblico impiego, non essendo ipotizzabile una fattispecie di lavoro subordinato presso una pubblica amministrazione al di fuori del pubblico impiego) e di tutti i diritti ad esso correlati, sia alla luce della normativa costituzionale e legislativa interna, sia alla luce della richiamata normativa e giurisprudenza comunitaria: diritto ad un’equa retribuzione, diritto alla pensione, alla tutela della salute e della maternità, alla continuità del rapporto in caso di abusiva reiterazione del rapporto a tempo determinato.

Tar Bologna, sez. I, ord., 1 giugno 2020, n. 363 – Pres. Migliozzi, Est. Amovilli

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